La Juventus diventa bianconera

É il 1903, il nuovo campionato è alle porte. 
É anno di cambiamenti.
Raccontiamo la storia delle maglie bianconere tramite le abili parole di Renato Tavella. Riportiamo il capitolo “Un pacco da Nottingham” tratto dal libro “Nasce un mito: Juventus!”.

Juventus, 1903
Nei diversi angoli d’Italia, con maggior partecipazione in Piemonte, Lombardia e Liguria, in molti avevano incominciato a interessarsi al football e organizzavano partite, allestivano squadre. Aumentavano i praticanti, in particolare tra i giovani, catturati dalla novità e affascinati dal gioco. Nello stesso Football Club Juventus erano cresciuti soci-giocatori, che adesso si contavano in alcune decine. Tanto che parlare di una squadra Juventus era -ed è- un modo generico di dire, solo aderente alla realtà poiché ogni partita era un fatto ancora poco comune e chi vi partecipava era, a pieno titolo, un rappresentante del Club. Pur se a dire il vero, Donna, Varetti e Armano, erano indotti a distinguere una squadra cosiddetta di base dalle altre che si formavano per opportunità e altro. Ma non ci stava ad una così netta distinzione, ad esempio, Umberto Malvano:
  «Che cos’era, se non Juventus, la squadra che aveva trionfato tra gli studenti nella Coppa Ministero della Pubblica Istruzione?»

  La sua piccola parte di ragione Umberto ce l’aveva, considerato che lui per primo, ma anche altri, come Francesco Daprà, avevano in diverse occasioni giocato nei match ritenuti di primo livello. Non era -sia ben chiaro- sprovveduto da non convenire che nei fatti esisteva una squadra titolare; ma ci teneva a sottolineare il fatto che se la società stava diventando importante il merito andava a tutti i footballer. Difficile dargli torto. Infatti anche gli undici soci aggregati alla meglio in estate, per partite giocate nelle sagre di paese, facevano la loro bella parte nel promuovere e far conoscere la società ad un pubblico più vasto, attirando sempre non poca simpatia.

  «Ma è l’eleganza che lascia a desiderare», disse un giorno Donna, lisciandosi i baffi, mentre sedevano a un tavolo del Caffè della Borsa.
  Fuori il cielo plumbeo aveva fatto ripiombare via Roma nell’autunno. Una sì, una no, erano state accese anzitempo le luci gialle dei lampioni. I pochi torinesi per strada affrettavano il passo, si infilavano negli androni o nelle porte dei caffè.
Solo di fronte ad un vermut veniva la voglia di parlare.

  «Jim l’ha fatto notare più d’una volta, e ha ragione», aggiunse Donna, guardando alla sua destra un giovane signore, di bell’aspetto.
  «Per me!», esclamò questi, sentitosi in dovere di rispondere almeno con due parole. Poi zitto. Eppure in genere aveva la lingua pronta, era un brillante avvocato capace di andare avanti per ore a disquisire. Tuttavia in quella circostanza non gli era sembrato elegante lanciarsi in opinioni. Prematuro, di cattivo gusto. Molto meglio ascoltare prima, conoscere.
D’altronde con quale ponderato criterio avrebbe potuto dire la sua? Nel club era l’ultimo arrivato, pur se una buon amicizia lo legava a diversi juventini da parecchio tempo.
  Piccola Torino. Addirittura un Salotto la sua Piazza D’Armi, punto d’incontro per gli sportivi della città, frequentata alcuni pomeriggi anche da Giacomo Parvopassu. Un giovane avvocato in carriera che, per via di comuni amicizie familiari, era presto venuto in contatto con Domenico Donna e si era lasciato coinvolgere dal goliardico clima juventino. Non ci aveva pensato due volte e si era iscritto al club come socio sostenitore. Se poi succedeva pure, qualche volta, di provare a dare due calci al pallone, tanto di guadagnato. In risate soprattutto.
  «Che tu sappia, Jim potrebbe farne arrivare di quelle originali made in England?», chiese Favale.
  «Credo di sì», rispose Donna.

In quel tardo pomeriggio, dopo aver consumato l’aperitivo, l’argomento fu lasciato cadere. Venne ripreso e commentato in altre occasioni, fino all’unanime convinzione che col nuovo anno si rendeva necessario un rinnovamento. A partire dal corredo di gioco, dalla sostituzione delle maglie. Scolorite, quasi bianche, le gloriose camicie rosa di percalle non ne potevano proprio più. Andavano cambiate, aveva detto bene Jim.
Jim, come veniva chiamato amichevolmente John Savage, quando fu informato della decisione di sostituire la divisa di gioco, si disse d’accordo a collaborare. Certo che poteva occuparsene. Aveva mantenuto buoni rapporti con l’Inghilterra, godeva ancora di molte conoscenze.
Partì l’operazione “nuovo corredo”.

  Presa carta e penna, Savage scrisse ad un connazionale, commerciante di indumenti e di attrezzature sportive della natia Nottingham. Dopo formali convenevoli e gli immancabili cordiali saluti, formulò la richiesta di una serie di maglie da football. Un ordinativo bell’e buono, consistente e ben pagato, da consegnare a suo nome il più in fretta possibile, vista la necessità.
Raccolta la richiesta il negoziante, persona a sua volta diligente e di parola, pur di non deludere l’amico Jim e soddisfare, in maniera celere, l’ordinativo, si attivò sul momento spedendo le maglie di cui disponeva in quel frangente in magazzino. Senza troppo badare -pare- a soddisfare la clientela dal punto di vista cromatico.
  Alla gioia per il ricevimento dell’atteso pacco in arrivo dall’Inghilterra, seguì all’istante -così, ancora sembra- l’immediata delusione nel vederne il contenuto. Slegati infatti nodi e cordini, tolta la carta era apparso agli occhi juventini un contenuto imprevisto, totalmente inatteso di casacche a strisce verticali bianche e nere. Rimasero interdetti. Aveva ben voglia di dire Jim che si trattava delle maglie del Notts County, club che per eccellenza rappresentava la sua città. A Donna e compagni importava poco, loro avrebbero preferito di gran lunga le fiammanti casacche rosse del Nottingham Forest che, fino a prova contraria, restava pur sempre rappresentante di tutto riguardo della stessa città di Nottingham.
  Pazienza. Indietro non si poteva sicuro tornare. La spesa era stata fatta e bisognava farsi andare bene quella singolare associazione di colori.
«Che poi a vedere ‘ste maglie coi pantaloni neri», fece notare una voce, «non vanno neanche male».

Già, il pantalone. Dal tempo di Edoardo Bosio e del duca degli Abruzzi, assoluti pionieri che si cimentavano in tenute da passeggio cittadino solo levandosi l’impedimento della giacca, l’indumento si era molto evoluto. Per praticità, ma anche per vezzo, di anno in anno si era fatto più corto di un paio di dita. Prima, diventando una sorta di pantalone della zuava fermato da calze pesanti in bella vista; in seguito, per permettere maggiore libertà di movimento alla gamba, si era distaccato dal calzettone fino a lasciare scoperta una piccola finestra di ginocchio. Persino Tamagnone, che pure per il ruolo di keeper si doveva rotolare per terra, in questo anno 1903 si sarebbe vergognato di indossare una braga lunga, non tanto perché la sua era di colore bianco, ma per il fatto che era fuori canone in lunghezza. Farfalle e cravatte, poi, sparite del tutto dalla moda. Massima libertà, se si doveva correre. Con un occhio al particolare, naturalmente, da destinare agli scarponcini, da preoccuparsene col calzolaio di fiducia affinché fossero solidi e…affilati per i goal.

  Ricapitolando: da questo momento il Football Club Juventus si sarebbe presentato agli sportivi con la maglia bianconera, il pantaloncino nero al ginocchio e i calzettoni neri. Al di là della curiosità dell’aneddoto -peraltro storico- il fatto in sé non assumerebbe gran motivo di peculiarità, non fosse che grazie a questo avvicendamento delle maglie, la Juventus prese in consegna il simbolo che la contraddistinguerà nel futuro del mondo del calcio. D’ora in avanti gli juventini saranno per tutti “i bianconeri”.


Chiaramente vi consigliamo la lettura di questo bellissimo libro di storia bianconera.

“Nasce un mito: Juventus!
La straordinaria storia della fondazione e delle prime vittorie di un Club che ha segnato la vita del gioco più bello del mondo.”
Autore: Renato Tavella
Editrice: Newton & Compton Editori




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